Nella valigia per la Sicilia aveva messo un pullover di lana, anche se era estate. Restò sul fondo del bagaglio fino all’ultima sera. Ora lo accarezzava. Era la sua rete da pesca per intrappolare oggetti. In una manica infilò una conchiglia dalla spirale limpidissima e sotto il colletto i resti di un’altra mangiata dal muschio. Pareva portata in salvo dal fondo del Mediterraneo da un bambino dell’antica Grecia. La stella marina la mise da qualche parte dentro il maglione, verso sinistra, perché un tempo pulsava, come il suo cuore ogni volta che tornava sull’isola.
“Hai visto per caso un brindolo?” sua madre entrò nella stanza senza bussare, come faceva una volta.
“Che è ‘sto brindolo?” rispose.
“I brindoli del lampadario, in soggiorno, li ho messi tutti a posto, ma ne manca uno e si nota. Puoi aiutarmi a cercarlo prima che arrivino gli ospiti? Poi però lo riattacco io”.
Da sempre c’era in casa quel lampadario enorme al quale erano attaccate con un fil di ferro consumato dal tempo decine di gocce di vetro intagliato. Pioveva spesso nel salone, specie quando ci passava qualche amico alto, e appena per terra si trovava una goccia, bisognava raccoglierla. Solo a sua madre però spettava il compito di riattaccarla: il lampadario era suo soltanto. Da bambini la guardavano tutti a bocca aperta. “Lo vedete l’arcobaleno sul pavimento?” chiedeva, e loro pensavano fosse lei a comandare quell’arco di colori. “È la luce dell’universo che è venuta a trovarci” e loro agitavano le manine in segno di saluto. Quando la sala era deserta e c’erano quei riflessi sul pavimento avevano tutti un po’ di paura. Mancava il capitano dell’arcobaleno, la loro madre.
Cercarono il brindolo sopra e sotto il tappeto, tra i cuscini del divano, si misero persino a tastare il sacchetto dell’aspirapolvere. Poi dovettero fermarsi perché arrivarono gli ospiti – che poi erano soltanto zii e cugini, gente che chiamava quel posto casa e che mai si sarebbe scomposta per un brindolo mancante.
Fu una cena commovente. Chissà quanto tempo sarebbe trascorso prima di farne un’altra. “A presto” si dissero, nascondendo le parole dietro i sorrisi.
La mattina l’accompagnò all’aeroporto un parente. L’abbraccio fu lungo ma non seppe dire abbastanza. La valigia era più leggera: non c’erano regali per gli altri, solo per sé. Il brindolo era al sicuro, arrotolato nel fondo del maglione.
Quiere Usted mate? – uno Spagnolo mi profferse a bassa voce, quasi a non turbare il silenzio profondissimo della Pampa. Le tende si allungavano a pochi passi da dove noi seduti in circolo in silenzio guardavamo a tratti furtivamente le strane costellazioni che doravano l’ignoto della prateria notturna. Un mistero grandioso e veemente ci faceva fluire col refrigerio di una fresca vena profonda il nostro sangue nelle vene che noi assaporavamo con voluttà misteriosa nel silenzio purissimo e stellato. Quiere Usted mate? Ricevetti il vaso e succhiai la calda bevanda. Ero gettato sull’erba vergine. In faccia alle costellazioni mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giuochi dei loro arabeschi cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano, i miei ricordi si sommergevano deliziosamente per riapparire a tratti lucidamente trasumanati in distanza, come per un’eco profonda e misteriosa dentro l’infinita maestà della Natura. Gradatamente lentamente assurgevo all’illusione universale e dalle profondità del mio essere e della terra ribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità a traverso i secoli. Le idee brillavano della più pura luce stellare nel silenzio fatale. I drammi più meravigliosi dell’anima umana palpitavano e si rispondevano a traverso le costellazioni. Una stella fluente in corsa magnifica segnava la fine gloriosa di un corso di storia. Su le bilancie del tempo e [de] lo spazio invisibili immanenti alternavano immutabilmente i destini eterni. Un disco livido spettrale spuntò a l’orizzonte lontano profumato irraggiando riflessi gelidi d’acciaio sopra la prateria. Il teschio che si levava lentamente era l’insegna formidabile di un esercito che lanciava torme di cavalieri colle lancie in resta acutissime lucenti: erano gli indiani morti e vivi che si lanciavano alla riconquista del loro dominio di libertà in lancio fulmineo. Le erbe piegavano in gemito leggero al vento del loro passaggio. La commozione del silenzio intenso era prodigiosa.
Cosa fuggiva sulla mia testa? Fuggivano fuggivano le nuvole e le stelle fuggivano. Intorno a me non vedevo più alcuno: ero solo ne la notte nel deserto: chi ero? E a un tratto la malinconia profonda dell’eterno errante mi strinse. Le stelle e le nuvole fuggivano per trascinarmi al deserto nero. La pampa, tutta la pampa selvaggia e nera corsa dai venti pareva corrermi incontro per prendermi nel suo mistero. Le erbe scosse avevano un rumore lugubre. I miei occhi si chiusero. Mi assopii – di nuovo indifferente all’avvenire. Nel mio assopimento, più fievole udivo un fragore ferreo. Sopra un vagone scoperto correvo alla ventura: sulla mia testa fuggivano le stelle e i soffii del deserto: incontro mi si lanciavano le ondulazioni della Pampa come dorsi di belve in agguato. Correvo tra le tribù indiane? Il sole mi avrebbe ancora guardato al mattino? La corsa aveva assunto la velocità di un cataclisma. Io preso come un atomo nella rivoluzione di un cosmo invano volevo gettarmi fuori di quel turbine assordante verso il riposo verso il nulla in mezzo al lugubre fracasso, fatalmente trasportato dalla corrente irresistibile. E allora mi inebriai del mistero della pampa selvaggia e nera corsa dai venti che mi volava incontro come per prendermi nel suo mistero. Era la morte? Era la vita? Mi parve che quel treno non dovesse mai arrestarsi mentre il rumore lugubre delle ferramenta ne commentava incomprensibilmente il destino fin che nella stanchezza e nel gelo della notte la calma sopravvenuta, steso sul piano di ferro il concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lievi veli argentei, e ancora tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabile che mi risaliva alla mente in flutti amari e veementi.
La luna illuminava ora tutta la pampa deserta e uguale in un silenzio profondo. Solo a tratti nuvole scherzanti un po’ colla luna, ombre improvvise correnti per la prateria e ancora una chiarità immensa e strana nel gran silenzio. La luce delle stelle ora impassibili era più misteriosa sulla terra infinitamente deserta: una più vasta patria il destino ci aveva dato; un più dolce calor naturale era nel mistero della terra selvaggia e buona. Assopito ora seguivo degli echi di un’emozione maravigliosa, degli echi di vibrazioni sempre più lontane: fin che pure cogli echi l’emozione meravigliosa si spense. E allora fu che dal mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere, fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito. Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di nessun Dio.
Non scrivo da molto tempo. Ho trascurato questo diario per esplorare altri luoghi creativi che non chiedevano di essere documentati: questa la ragione della mia lunga pausa. Durante il silenzio credo sia mutato qualcosa, forse il mio sguardo. La prova di questa trasformazione l’ho avuta nel mio recente viaggio a Budapest. Vale la pena scriverne ora.
C’è molto vento quando arrivo in città, un vento teso, allertante. Arriva a folate gelide dal sottosuolo della metro fino alle sponde del Danubio. Un mio caro zio che viaggia molto mi aveva avvertita di questo clima fuori stagione. Cosicché, partita con il giusto equipaggiamento, non mi sorprendo quando, incontrando la proprietaria del mio alloggio, il primo discorso a saltare fuori è quello sulla sicurezza del quartiere. Poi segue l’elenco delle preoccupazioni che affliggono gli ungheresi della metropoli globale, rabbonite dal nuovo ordine delle cose che protegge tutti. La Signora mi rassicura, senza che io abbia espresso nessun parere sull’invisibile minaccia. È sempre avvilente tentare un confronto con chi ha delle granitiche certezze e perciò registrato il dato, correlandolo con i venti forti che spirano dall’Italia, la mia reazione istintiva è quella di compiere la prima magia della giornata.
Dirotto l’argomento sul più grande cartone-animato della storia della televisione ungherese: la famiglia Mezil. La Signora affittacamere allarga un sorriso abbagliante e ritorna bambina. È anche più carina adesso. Non sentiva parlare di questa famiglia strampalata da tanto tempo e mi racconta che A Mézga család -questo il titolo originale in ungherese- è stato tra i suoi cartoni preferiti. È stato anche il mio cartone preferito, dal quale ho imparato che se il contesto in cui vivi ti sta stretto, puoi costruirti un’astronave di gomma gonfiabile per andartene altrove, in giro nell’universo magari. E comunque si può essere sempre aggiornati sull’evoluzione del mondo, grazie ad un collegamento radio speciale con il futuro. Questo, almeno, è quello che faceva con disinvoltura il giovane figlio prodigio Aladár Mézga insieme al suo cane parlante Fofi. È così che ho cominciato ad amare la radio, ma è un’altra storia e magari la racconterò un’altra volta. Io e la Signora ci scambiamo altre impressioni e prima di separaci ho già una chiara idea su dove trovare tracce dei Mezil.
A questo punto può cominciare la visita nella città più modernista dell’Europa centrale.
Nella formazione artistica degli artisti ungheresi è indubbio il fascino esercitato dai modelli italiani e naturalmente dai modelli francesi, viennesi e berlinesi. L’epoca d’oro di Budapest (1860-1900) è il risultato di un innesto di tutte queste influenze europee con le origini orientali degli ungheresi. La geografia consente il passaggio di ogni corrente artistica che però a Budapest viene mescolata e poi filtrata in una versione particolare tutta ungherese. Qui l’Art Nouveau si fonde allo Jugendstil del nord- Europa per dare vita al Secessionismo (Szecesszió). Motivi decorativi di matrice siriana e indiana si fondono con quelli della cultura popolare ungherese, senza mai scadere nel folklore o in manierismi accademici. Del resto la parola stessa “secessione” deriva dal latino “secedĕre” cioè allontanarsi, separarsi da tutto ciò che è classicismo. Il Modernismo ungherese è servito.
“Cade (…) ogni distinzione tra arte pura (…) e arte decorativa o <<applicata>>: la ricerca estetica si estende così a tutto ciò che forma l’ambiente e serve alla vita dell’uomo”. (L’arte Moderna, Giulio C. Argan, Ed. Sansoni, Firenze 1988).
Ricerca estetica che si arresta del tutto all’indomani della seconda guerra mondiale con l’arrivo del comunismo. Il regime non investe sull’arte e non la ritiene un mezzo propagandistico utile. E in effetti bisogna dire che girando la città il filo di un certo gusto estetico si percepisce come spezzato, senza continuità storica, improvvisamente interrotto. Terreno fertile per una deriva kitsch di certe produzioni. Poi il filo sembra riannodarsi nelle architetture moderne, comprese quelle recenti, che conservano quelle che in Ungheria furono vere e proprie anticipazioni del Bauhaus di W. Gropius.
Purtroppo, in questo periodo diversi cantieri di restauro attivi non permettono di visitare alcuni edifici storici. Questo è il caso del Museo delle arti applicate, bellissimo esempio di architettura secessionista, opera diÖdön Lechner, detto il Gaudì ungherese. L’elemento distintivo di Lechner è la copertura degli edifici con tegole in ceramica Zsolnay, la manifattura più importante dell’Ungheria che a tutt’oggi si contende il primato con la rivale Herend.
Mentre osservo nel dettaglio queste ceramiche, mi accorgo che l’iridescenza di certi lustri rimanda alle ceramiche iraniane antiche, un po’ opacizzate. Possibile che l’arte dei lustri si sia conservata qui da allora, senza interruzioni? Non credo.
Poi è tempo di una pausa caffè e di una telefonata alla mia amica ceramista Giulia Pecoraro. Il confronto telefonico ha l’effetto di una messa a fuoco migliorata e tutto appare più chiaro. Ero partita da troppo lontano, dalla Persia nientemeno. Invece, bastava arrivare nella più vicina Italia del Rinascimento , esattamente nella bottega di Giorgio Andreoli da Gubbio (Intra, tra il 1465 e il 1470 – Gubbio, 1555). Infatti, fu proprio col voler imitare gli effetti metallici delle ceramiche faentine, che Vilmos Zsolnay , insieme al chimico Wartha Vince, scopre il complicatissimo e segretissimo processo di smaltatura all’eosina.
L’eosina è la sostanza responsabile dell’interferenza della luce che crea gli effetti metallici di questi smalti. Il fenomeno fisico è simile a quello che vediamo nelle iridescenze delle bolle di sapone. L’oggetto smaltato all’eosina è anche molto resistente agli agenti atmosferici più estremi ed è comprensibile che venisse utilizzato per rivestimenti di un certo pregio.
A questo punto la visita procede inseguendo le perfomance artistico-musicali sparse per gli angoli della città intervallando moderate soste ai caffè storici. Visitate questo sito quiper sapere dove si svolgono i mini-concertigratuiti, oppure conservate nello zaino la fanzine diZenélő, che prima o poi troverete da qualche parte.
Questa immersione nell’arte, espressa da giovani musicisti, pittori e artisti in generale, mi fa riflettere sulla potenza liberale della cultura, nonostante il continuo vento forte inibisca certi slanci. Ho una fiducia incondizionata sui ragazzi e l’arte. Chissà, magari c’è qualcuno fra di loro che è in contatto radio con il futuro e saprà gestire tutti i venti contrari, compresi quelli di Orbán e dei suoi amici.
Tutte le foto (esclusa quella della maiolica di Gubbio che è stata presa da Wikipedia), nonché il disegno di copertina, sono di mia produzione.
Se dovessi immaginare un luogo dove si riuniscono tutte le nuvole del mondo, penserei a Delft. Andrebbe bene una qualunque città dell’Olanda per osservare questo grande raduno, ma certi spettacoli richiedono la giusta quiete e a Delft lo sguardo si fa silenzioso. L’intensità e il colore della luce sono quelle esatte dei quadri di Jan Vermeer. Si capisce direttamente la prodezza del grande ritrattista dell’intimità olandese: l’aver saputo condensare questa luce in pochi centimetri quadrati di tela, senza intaccarne la vastità. Ma se si vuole vedere qualcuna delle sue opere è al Rijksmuseum di Amsterdam che si deve andare e io per fortuna vi ero stata qualche giorno prima. I motivi di interesse della città di Delft, comunque, soddisfano il viaggiatore curioso di arte, storia e scienze.
In questa città il principe Guglielmo d’Orange, detto il Taciturno, visse gli ultimi anni della sua vita. Ucciso nel 1584 da un fanatico cattolico, prima di morire ebbe modo di avviare il lungo processo di ribellione degli olandesi dal dominio spagnolo di Filippo II. A Guglielmo si deve il primato storico di aver condotto la prima lotta di popolo per l’indipendenza e, di fatto, la paternità della nascita dei Paesi Bassi. La storia di come questa piccola Nazione, partendo dalla pesca delle aringhe, sia arrivata a dominare i mari del Nord e il Mediterraneo, diventando la maggiore potenza marittima, commerciale e finanziaria del mondo, ha qualcosa di incredibilmente avvincente. Vale la pena, prima di partire, procurarsi “La civiltà olandese del Seicento” di Johan Huizinga per averne un’idea. Vecchio storico non mente e le sue analisi chiarissime ti fanno comprendere lo spirito degli olandesi di ieri e di oggi.
Un altro primato di Delft sono le ceramiche. La ceramica blu-delft ha un impasto bianco come la porcellana, ma tecnicamente non lo è. La caratteristica di questo particolare compromesso tra la maiolica e la porcellana cinese è quella di essere decorata prevalentemente in blu*. Per forgiare il pezzo, l’impasto- ricavato da una particolare miscela di argille bianche- in forma liquida, viene colato in stampi di gesso e poi rifinito a mano. Dopo la fase di essiccazione, il manufatto subisce una prima cottura (1060° C circa), al termine della quale, si ha già bello e pronto un oggetto bianchissimo sul quale dipingere direttamente. Il disegno, quando non è eseguito interamente a mano (tracciando una linea di manganese o azzurro chiaro nota come trek), viene trasferito sul pezzo tramite stencil o spolvero e terminato, a mano libera, usando il colore blu. I pezzi minuti e la gadgettistica vengono decorati spesso utilizzando tecniche di stampa più economiche (transfer o decalcomania).Il blu di questa ceramica è composto da una polvere di ossido di cobalto con aggiunta di ossido di rame. Si diluisce semplicemente con acqua e prima della cottura definitiva ha una colorazione nerastra, il che aiuta molto a regolarsi nei passaggi di tono. Ultimato il decoro, il pezzo viene cristallinato (una volta questa copertura nota come kwaart era a base di piombo), ovvero smaltato con vernice trasparentee cotto una seconda volta (1200° C). È in questa ultima fase che avviene la magia del fuoco: il pigmento nero reagisce con lo strato di cristallina e rigonfiandosi leggermente si trasforma nel bellissimo blu-delft.
Il sofisticato ed elegante risultato raggiunto da Delft nella produzione ceramica è frutto di eventi storici ben precisi. I ceramisti più bravi, che inizialmente producevano maioliche colorate di blu scuro, arancione e verde, arrivarono a Delft da Anversa. La città fiamminga sul finire del ‘500, subì la politica repressiva di Filippo II, costringendo molti mercanti e artigiani ad un vero e proprio esodo. Ma perché scegliere proprio Delft? E qual è la ragione del successo della ceramica bianca-e-blu? Delft ha delle vie di accesso molto comode per il carico e lo scarico delle navi mercantili e a quel tempo era piena di capannoni vuoti, dopo la chiusura di moltissime birrerie cadute in declino a causa della concorrenza inglese. Infine, ˂˂la ricostruzione della città dopo l’incredibile esplosione dell’arsenale nel 1654 (…), costituiva uno sbocco agli impieghi di capitali˃˃.**Questo sì che significa sapersi reinventare!
L’elemento, invece, che determinò il glorioso successo della ceramica bianca-e-blu, fu l’arrivo della porcellana cinese grazie alla Compagnia Olandese delle Indie Orientali. Agli inizi si trattò di riproduzioni più o meno fedeli degli schemi figurativi cinesi e ci volle molto tempo per trovare uno stile proprio. Sul finire del ‘600, i grandi vasi di fiori policromi, i piatti e i pannelli con paesaggi da appendere al muro al posto dei quadri, arredavano i palazzi reali di tutta Europa e le case dei ricchi: il barocco olandese era servito.
Di tutto questo grandioso passato a Delft oggi ci sono molte tracce, ma rimangono soltanto un paio di fabbriche di ceramica da poter visitare (Royal DelftQui e De Delftse Pauw Qui). Nonostante ciò, la ricerca artistica continua ed è viva più che mai. Al Museo Het Prinsenhof (la Corte del Principe), sono esposti i risultati di un lungo gemellaggio intercorso tra artisti olandesi e cinesi della città di Jingdezhen, la capitale della porcellana cinese. A questa ricerca artistica, poi, si affianca anche quella tecnica e scientifica. La Technische Universiteit Delft (TU Delft), è la sede di una delle più prestigiose Università tecniche del mondo. Nel dipartimento di scienze applicate, per esempio, si studiano i materiali ceramici come una possibile alternativa per lo smaltimento dei rifiuti tossici e innumerevoli altri impieghi. Il futuro della ceramica qui a Delft è in buone mani.
*Ricordiamo che la maiolica è un qualsiasi manufatto ceramico di argilla porosa che viene cotto e poi smaltato con una vernice a caldo (lo smalto), mentre la porcellana è fatta di un impasto di argille bianche (caolino, feldspato, quarzo), e può essere smaltata con vernice trasparente anche prima della cottura. Naturalmente, le temperature di cottura variano molto tra maiolica e porcellana.
**In “Ceramica nei secoli”, a cura di Robert J. Charleston, presentazione di Giuseppe Liverani, Arnoldo Mondadori Editore, pag. 167.
Fra il XVII e XVIII sec. la produzione di azulejos sivigliana subisce una decadenza. A dominare è il modello di Delft con figure e animali.
La pittura in stile italiano ebbe però una seconda vita e si perfezionò nei secoli successivi. A inizio del XX sec. le fabbriche di Triana producevano una nuova ceramica smaltata e decorata su smalto cotto, utilizzando ossidi sciolti in trementina. Questa tecnica permise di realizzare pannelli giganteschi di alta qualità pittorica. Piazza di Spagna è l’esempio più strabiliante di azulejos del primo trentennio del Novecento.
Ma com’è oggi lo stato di questo settore a Siviglia? È questa la domanda che faccio a Josè Maria Campos, quando arrivo al centro storico della città, dove per quasi tutto il periodo di Maggio, il turista viene accolto da due bellissime iniziative: fiera dell’artigianato sivigliano e fiera del libro. Josè mi dice che il settore è in buone condizioni. Non sentivo una dichiarazione del genere da almeno 15 anni! Il fatto è che gli artigiani sivigliani sono uniti in una federazione (F.A.S.) che funziona. Portano avanti diverse iniziative durante l’anno, sostenute dalla regione, dal comune e da loro stessi, al fine di promuovere il proprio lavoro. Lo stile che Siviglia sceglie per far conoscere le sue eccellenze è davvero di altissimo livello. L’impressione che ho è quella di vedere la miglior selezione delle maestranze sivigliane delle varie forme di artigianato e non la solita accozzaglia di chincaglierie anonime che si vedono in certe altre piazze. Quello che vedo sarebbe un bellissimo modello da esportare, che ne so, in Sicilia per esempio.
Le mie ore andaluse si concludono con un bel giretto intorno a Plaza Nueva, alla fiera del libro. Qui sono riunite tutte le librerie, comprese quelle universitarie, secondo lo stile e la tipologia di allestimento della fiera artigiana. Davvero gradevole l’effetto. Spulciando tra le bancarelle trovo un día perfecto (traduzione dell’originale Perfect di Danny Parker, illustrato da Freya Blackwood). A colpirmi di questo libro è il racconto di un’infanzia trascorsa all’aria aperta, piena di sorprese, nella sua semplicità. Niente messaggi pedagogici complessi e ricercati. Le illustrazioni sono un bellissimo esempio di come si possa coniugare il bel disegno all’editoria moderna.
Un ultimo gelato vicino la statua di Clara Campoamor, che tanto fece per i diritti delle donne e la divulgazione della cultura tra le bambine. Poi è davvero ora di andare, mentre penso che è stato davvero una combinazione magica vedere unite le mie due passioni, ceramica e illustrazione, nelle piazze sivigliane: un bel viaggio, un viaggio perfetto.
Tutte le foto per questo articolo sono state scattate da me.
Azulejo, piccola pietra lucidata e non ‘azzurra’ come si è portati a credere, devira dall’arabo az-zulaiŷ. È quel ‘azul’ che trae da sempre in inganno e il fatto che se ne siano prodotte tante in azzurro ha confuso ulteriormente le idee. Siviglia, fin dall’epoca romana, ha avuto il suo maggior centro di produzione di ceramiche nel quartiere di Triana, situato sulla riva destra del fiume Guadalquivir. Andare a visitarlo è un obbligo per un ceramista e una sorpresa per il viaggiatore comune.
Al Centro Ceramica di Trianaripercorro la storia della città, della sua grande tradizione nella produzione delle ceramiche e in particolar modo della storia dell’azulejo.
Nelle tappe precedenti di questo viaggio ho parlato di tutte le tecniche di decorazione della ceramica andalusa qui, tralasciando le due più importanti, perché esse sono quelle che precedono la nascita dell’azulejo come lo conosciamo oggi. Queste due tecniche sono la cuerda seca (corda secca) e la arista (o cuenca). La cuerda seca inizia nel periodo omayyade e si sviluppa pienamente in Andalusia nel X sec. I motivi decorativi in questa tecnica sono separati con una linea di manganese miscelata a grasso e olio di lino. Questa materia grassa impedisce la miscelazione degli smalti colorati durante la cottura. Sembra una tecnica molto complicata, perché utilizzarla così ampiamente? Perché, intanto non esisteva ancora la piastrella da rivestimento con la copertura in smalto come la intendiamo oggi, bisogna aspettare il Rinascimento Italiano per averla; in secondo luogo, la cuerda seca è molto più semplice della precedente tecnica dell’alicatados, che consisteva nella smaltatura di lunghe lastre di argilla che poi venivano tagliati a pezzetti per formare i bellissimi rivestimenti parietali dei palazzi reali.
Quindi nei restauri di zoccoli e pavimenti dei vari palazzi di epoca musulmana- dall’Alhambra all’Alcázar di Siviglia- si preferì utilizzare la cuerda seca, anziché l’alicatados. Vedremo ora come alle geometrie e ai meandri dell’età araba, si aggiungeranno le evoluzioni floreali e figurative di matrice rinascimentale.
Agli inizi del XVI sec. la tecnica della cuerda seca viene sostituita con il metodo dell’ arista o cuenca, che consiste nel produrre i decori con dei contorni ad alto rilievo ottenuti tramite degli stampi in legno che vengono impressi sull’argilla cruda. Le depressioni create dallo stampo, una volta riempite con smalto, accolgono la vernice, mentre i bordi a rilievo ne impediscono la miscelazione.
L’arte e i metodi dei pittori di maiolica italiani raggiunsero Siviglia con l’arrivo di un certo Francisco Niculoso. Arrivò in Spagna prima del 1500. Quest’uomo, che si firmava ‘il pisano‘, certamente studiò a Faenza, perché il disegno in turchino scuro con i contorni neri che lui introdusse, era proprio di stile faentino. Le sue composizioni religiose erano tratte dai libri di preghiera e stampe di artisti italiani. Niculoso, in sostanza, ignorava i grandi zoccoli e i mosaici di ceramica che da secoli ornavano gli edifici andalusi. Ma dopo la sua morte (1529), i ceramisti di Siviglia tornarono alla tecnica della cuenca per diverso tempo, finché non vi fu un nuovo afflusso dei metodi italiani nella penisola iberica: questa volta gli sforzi dei maiolicari italo- fiamminghi di Anversa, si combinarono con gli immigrati di Genova e Albisola per far rivivere un genere di decorazione simile a quello del Niculoso. Fu così che i ceramisti di Siviglia appresero l’impiego degli smalti colorati italiani e cominciarono a produrre i loro meravigliosi pannelli di azulejos. Oggi questi grandi arazzi maiolicati in stile italo-fiammingo possiamo vederli in molte stanze dell’Alcázardi Siviglia.
Nella prossima ed ultima tappa di questo viaggio vedremo l’evoluzione delle ceramiche sivigliane fino ai nostri giorni, chi sono i nuovi ceramisti e come si organizzano. E una sorpresa proveniente dalla Fiera del libro di Siviglia.
Per questo articolo il testo di rifermento è Ceramica nei secoli, Robert J. Charleston, Arnoldo Mondadori editore, 1970. Le foto sono state scattate da me.
Granada vuol dire principalmente Alhambra, nonostante la città ce la metta davvero tutta per offrire altre proposte e convincerti di prolungare il soggiorno. Ci si sente dei privilegiati nel poter vedere questa splendida città palazzo nella sua interezza, data l’esigua disponibilità dei biglietti per il tour completo. Consiglio di programmare la visita con molto, moltissimo anticipo. Descrivere questo luogo incantato quasi mi intimorisce. Penso che il commento migliore, in questo caso, possa essere solo musicale e perciò vi rimando all’ascolto dellaLindaraja di C. Debussy, che ne interpreta lo spirito nel migliore dei modi. Sebbene la cittadella rossa (Qalʿat al-ḥamrāʾ), non fu mai visitata dal compositore, il quale la conobbe, pare, dalle riviste illustrate del tempo, egli fu capace di descriverne le meraviglie. Certe volte l’immaginazione compie viaggi più profondi. Per una descrizione generale, se non avete voglia di recuperare il disco, Wikipedia docet qui.
Per un’appassionata d’arte e ceramista Alhambra vuol dire anche “vaso”e non uno qualsiasi, ma il vaso che ha le ali. Si tratta di uno, dei circa dieci esemplari esistenti, tra i più spettacolari manufatti del periodo mudéjar, ovvero del momento in cui la tradizione ceramica musulmana si fonde con quella ispanica. Le protagoniste della decorazione dell’ ispano-moresco, alto più di un metro (134 cm per l’esattezza), sono due gazzelle finemente stilizzate, che si guardano accennando quasi un passo di danza. Ai bordi della pancia le anse a forma di ala lo completano. Purtroppo una delle ali è spezzata. Questa tipologia di vasi, eseguita con la tecnica del lustro, non ha pari in altre parti del modo musulmano e il loro utilizzo era solo a scopo ornamentale. Questi giganti venivano forgiati in diverse sezioni separate che poi venivano unificate. Si procedeva dunque alla smaltatura e alla decorazione (in blu e oro in questo caso), con pennelli e piume d’oca, subendo ben tre cotture. Immaginate quanta difficoltà e pazienza nell’eseguire tutti questi passaggi alla perfezione e quanta capacità di accettare una possibile perdita.
Nell’arte islamica i principi decorativi riguardano tutta la produzione artistica, indistintamente, dall’architettura agli oggetti di uso quotidiano. Si parla di differenziazione solo in termini di qualità esecutiva, ma tutto è governato da una stessa idea di base che è quella dell’unità (tawhid). Questa unità, espressa dal modulo geometrico (o calligrafico o vegetale), è ripetibile all’infinito.
Il meandro o arabesco è il segno di questo rinnovamento illimitato, formatosi dal fondersi dell’elemento calligrafico (incarnazione visiva della parola sacra), in quello vegetale. Le figure di animali che vediamo al centro del vaso dell’Alhambra, si inseriscono in questa visione di armonia incommensurabile della natura e il richiamo iconologico all’albero della vita e al giardino del profeta sembra evidente.
Non tutti sanno che in Sicilia esiste un parente stretto del vaso dell’Alhambra. Non si conosce la storia di come e da dove sia arrivato, ma pare che una volta stabilitosi sull’isola, il gigante siciliano avesse scelto come sua abitazione una chiesa di Mazara del Vallo (Tp). Oggi è esposto nel cortile di Palazzo Abatellis a Palermo. A differenza del cugino d’oltre mare, il palermitano d’adozione ha una decorazione fitomorfica, senza figure di animali. Inoltre, nonostante il vaso dell’ Abatellis sia più piccolo di diversi centimetri, il fatto che sia decorato in oro su fondo bianco- e il bianco, si sa, ingrassa – lo fa sembrare più grande. Ma questa è una mia suggestione, naturalmente, come è una mia personale fantasia il pensiero che avere tutte e due le ali intere possa contare qualcosa nella vita di un vaso e nei suoi spostamenti.
Il riferimento bibliografico per questo articolo è Ceramica nei secoli, di Robert J. Charleston, Arnoldo Mondadori, 1970. Le foto presentate, sono mie, esclusa quella del vaso dell’Alhambra, che proviene da questo sito qui e quella del vaso Abatellis, che mi è stata inviata dalla mia amica Margherita che ringrazio tantissimo.
« …andare per la Spagna è, per un siciliano, un continuo insorgere della memoria storica, un continuo affiorare di legami, di corrispondenze, di “cristallizzazioni”. E bastano i nomi: di paesi, di strade. Che sembra sentirli risuonare, nella lontana eco del tempo, …» (Ore di Spagna, L. Sciascia, ed. Contrasto, 2016).
Il benvenuto di Malaga è un’ esplosione di blu in pieno giorno. La jacaranda, l’albero glicine che decora i parchi e le strade della città, al massimo della sua fioritura, occupa come una regina lo spettro visibile che sta tra il ciano e il violetto. Comincio la visita di questa città dall ‘Alcazaba (al-Qasba), l’antica cittadella dentro le mura voluta dai re del sultanato di Granada. Il suo colore camoscio si arrampica sulla collina dolcemente, avvinghiandosi al Gibralfaro. Funzionalità (difensiva in questo caso), governata dalla bellezza : è uno dei fondamentali dell’arte islamica.
L’Alcazaba è un buon inizio per conoscere da vicino il significato che ha avuto per la città la produzione della ceramica tra il XIII e il XV sec., ovvero durante il periodo in cui i musulmani Nazarí (o Nasridi), regnarono indisturbati nell’antica al-Andalus prima dellareconquista da parte dei re cattolici. Nelle stanze del loro palazzo all’interno della cittadella, vi è un percorso didattico museale. Lo scopo è quello di apprendere l’uso del tornio e delle altre tecniche di lavorazione della ceramica e allo stesso tempo avere una visione della dimensione formale e funzionale, di altissima qualità, che spesso la frammentazione e la conservazione dei resti archeologici non sempre permettono. Come le pagine di un libro illustrato le superfici di questi oggetti, diventano dunque veicoli di trasmissione della cultura del popolo andaluso. I motivi decorativi seguono quattro matrici: quella geometrica, quella vegetale, quella calligrafica e quella figurata (animali in prevalenza). Quest’ultima, essendo nell’Islam vietata la rappresentazione delle figure nei luoghi destinati al culto religioso, si riserva prevalentemente a oggetti di uso quotidiano.
Tutte le decorazioni vengono eseguite in stili differenti, accordandosi all’evoluzione delle mode, alle conoscenze dei materiali nuovi e delle tecniche più raffinate. Vediamo quali sono.
Decorazione sgraffiata.
È quella dalle radici più lontane nel tempo. Viene eseguita dipingendo grandi bande di bruno manganese sul pezzo di argilla color paglierino essiccato, ma non ancora cotto, sopra le quali viene inciso il motivo decorativo. Dopo la cottura il contrasto tra il nero del manganese e il chiaro del cotto sottostante producono un bell’effetto decorativo.
Decorazione invetriata.
In questo caso l’oggetto può essere o no inciso e coperto con uno strato di cristallina trasparente che durante la cottura, combinandosi con gli ossidi, per esempio di rame, può variare il suo colore.
Decorazione in verde e manganese.
È eseguita cercando il massimo contrasto cromatico tra il bruno manganese e il verde ramina che vengono utilizzati per tracciare il disegno sopra un rivestimento di ingobbio (barbottina, argilla liquida) chiaro. Il tutto viene poi rivestito con una cristallina trasparente. Il risultato è un oggetto bianco luccicante con motivi testa di moro e verde rame.
Il Lustro (ópera Malika). È questa la produzione che rese Malaga celebre in tutto il Mediterraneo. “…apprezzata nel regno moresco di Granada, esportata in Sicilia, in Egitto (…), i lustri di Malaga furono importati in Inghilterra già nel 1303…” (Ceramica nei secoli, Robert J. Charleston, Arnoldo Mondadori, 1970).Monocromo o più di rado policromo sembra sia stata una tecnica prima usata nel vetro e poi traslata nella ceramica. Questa tecnica consiste nell’applicazione di ossidi metallici (per esempio rame per l’effetto oro e piombo per l’effetto argento), sul pezzo precedentemente già cotto e smaltato. Subendo una ulteriore cottura a temperatura più bassa gli ossidi si fondono creando colori iridescenti. L’uso del lustro permetteva di avere degli utensili d’oro e di argento senza trasgredire il precetto coranico che vietava l’ostentazione sfacciata della ricchezza.
Decorazione dipinta.
La decorazione viene sempre eseguita sul pezzo crudo. Spesso è un motivo geometrico eseguito con il manganese e può non essere vetrificata. Dopo la cottura la linea di manganese, essendo un ossido, avrà comunque un riflesso metallico contrastante con lo sfondo opaco del cotto.
Decorazione sigillata.
Questa decorazione viene eseguita mentre il pezzo da decorare è ancora non completamente essiccato. I motivi decorativi vengono infatti impressi sulla superficie, utilizzando un cilindro di legno intarsiato.
Decorazione traforata.
Come nel precedente caso, il decoro viene eseguito ad una certa durezza dell’argilla (la famosa durezza cuoio), traforando con un punzone la superficie. Dalla combinazione degli spazi pieni e vuoti risulta un decoro che imita il merletto.
A questo punto rimangono gli ultimi due stili di ceramica tipicamente andalusa, la mitica cuerda seca e l’arista. Ne parlerò in un altro momento, quando saranno le protagoniste in un’altra tappa del viaggio. È ora di vedere, invece, cosa fanno oggi gli eredi di questa grande tradizione artigiana. Lasciando la cittadella, costeggiando le mura, arrivo al teatro romano. Un’orda di ragazzini sembra incantata dai racconti di due attori in costume. Un bell’esempio da vedere di come si possa fare cultura divertendo i giovani spettatori.
Di fronte la cattedrale, chiamata dai malaghegni La Manquita (monchetta)- per via del fatto che delle due torri campanarie previste ne fu terminata solo una- c’è una galleria d’arte che si chiama Alfajar. C’è in mostra l’opera ceramica di Xavier Monsalvatje, un artista formatosi tra Valencia e Caldas de Rainha (Portogallo). Il suo progetto esposto in galleria si intitola Las ciudades discontinuas e comprende dei lavori su carta oltre che su ceramica. Le città di Xavier generano sull’uomo rapporti conflittuali, isolandolo progressivamente. Le sue composizioni mi ricordano in qualche modo Fernad Léger, anche lui tra le altre cose ceramista. Ma mentre in Léger la macchina viene esaltata come frutto del lavoro e dell’ingegno umano, nelle ceramiche di Xavier la macchina tormenta l’uomo e gli detta un nuovo deuteronomio laico, impartendo le leggi nella terra promessa tecnologica, costruita su stabilità precarie e solitudini.
La galleria Alfajar ha una grande sala dedicata alla vendita di ceramiche artistiche.
Chiudo questa tappa andalusa con qualche immagine di queste nuove realtà malaghegne.